di Rosi Pennino
PALERMO. All’Art.14 della Legge 328/00 il testo recita: “Per realizzare la piena integrazione delle persone disabili di cui all’Art.3 della Legge 5 Febbraio 1992, n.104, nell’ambito della vita familiare e sociale, nonché nei percorsi dell’istruzione scolastica o professionale e del lavoro, i Comuni, d’intesa con le Aziende Unità Sanitarie Locali, predispongono, su richiesta dell’interessato, un Progetto individuale, secondo quanto stabilito al comma 2..()”.
Cosi, nasce lo strumento straordinario e rivoluzionario del Piano individuale di vita, da quella antesignana Legge che si chiama 328/00 che mira all’integrazione dei servizi sociosanitari. Una legge che fissa i capisaldi strategici di tutta la storia del sociale e dell’integrazione con i servizi sanitari, che missiona al suo interno tre obiettivi:
- La percezione, per la prima volta della “persona” con disabilità;
- L’armonizzazione di risorse e servizi in chiave sociosanitaria;
- L’utilizzo di equipe multidimensionali.
Una legge, veramente studiata da pochi, ma blaterata da molti. Nata per velocizzare i processi, ma imbrigliata nel cappio di passaggi burocratici infiniti, di risorse indirizzate a distretti sociosanitari inesistenti da un punto di vista giuridico e finita nella grande morsa “dell’incapibilità” di chi neppure ne tiene conto.
Grazie a questa legge nasce il diritto al Piano individuale di vita, un progetto che possa accompagnare la persona con disabilità per tutto il corso della propria esistenza, un sistema di aggancio a servizi e supporti che possano rispondere in maniera diversificata ai bisogni in ogni dimensione della crescita individuale e personale.
Sembra il disegno di un sogno bellissimo, e qualsiasi lettore, anche il più distratto, se avesse in mano la norma, non potrebbe che emozionarsi durante la sua lettura; purtroppo la realtà è diversa. Proviamo a spiegare perché, di modo da far orientare genitori e persone con disabilità in questo universo strambo in cui prendiamo una norma fantastica e la trasformiamo in un susseguirsi di passaggi burocratici infiniti, che vede al centro una parola magica: UVM.
Sembra quasi la formula magica di una frase tratta dalla famosa saga di Harry Potter ”Wingardium Leviosa”: “UVM!”.
Le UVM (acronimo di Unità di Valutazione Multidisciplinari) sono in realtà equipe di professionisti, chiamati a valutare i bisogni complessi di una persona con disabilità, sia in ambito sanitario che sociale, al fine di individuare le risposte più adatte di servizio (di natura assistenziale e/o sanitaria) in grado di dare risposta ai bisogni sulla base di una certificazione specialistica che elenca le attività e le necessità terapeutiche, riabilitative o educative della persona con disabilità.
Proviamo a spiegare come funziona, di modo da supportare il pensiero, ormai fortissimo in me, sia da genitore che da tecnico, rispetto al fatto che le UVM andrebbero abolite, o per meglio dire utilizzate in una funzione completamente diversa, che, guarda caso è scritta chiaramente nella Legge 328/00.
Un genitore o una persona con disabilità che ad oggi vuole avere accesso alla possibilità di far redigere il Piano individuale, inizia con il fare una istanza al Comune di competenza o alla sede del Distretto Sanitario di riferimento; per fare questa istanza è chiaro che la persona interessata è già in possesso dell’invalidità civile (L.104) e di una diagnosi fatta da uno specialista che la segue da sempre e che conosce perfettamente l’elenco dei bisogni e delle attività di assistenza più adatte da mettere in campo. Eppure, deve tornare dallo stesso specialista del SSN, farsi fare una certificazione specifica (cosi è indubbio che crescano le liste di attesa!) e allegarla alla istanza di Piano individuale.
Ora, facciamo finta (e non è così) che l’UVM, la chiami subito a visita: ebbene, persone assolutamente sconosciute, magari bravissime, sono chiamate in un tempo brevissimo a redigere il Piano individuale dei bisogni e dei relativi servizi da disegnare attorno a una persona, e alla sua famiglia, seguita da anni da uno specialista che invece ne conosce l’universo mondo.
Da qui, la similitudine con “Wingardium Leviosa” ci sta tutta. Superato questo momento magico, che di magico non ha nulla, si passa poi all’attivazione concreta di servizi, di cui per brevità, non parlerò in questo articolo, ma in una seconda puntata, trattandosi di tema ostico, che oggi mette in ginocchio Comuni e Asp.
Una volta attivati i servizi, finisce il Piano, finisce la persona, finisce l’armonizzazione di quel Piano che dovrebbe crescere insieme ai bisogni che cambiano. Finisce il film.. a meno che non sia la famiglia stessa a richiederne la “rimodulazione”, ma anche di questo parleremo nella seconda puntata.
Voglio precisare che i professionisti incaricati nelle UVM sia per parte sanitaria che sociale, hanno tutta la mia solidarietà; non hanno, infatti, responsabilità alcuna riguardo un organismo che invece dovrebbe essere utilizzato in maniera completamente diversa.
Per eliminare lungaggini, burocrazia, attese, sale del pianto, infatti, le UVM, andrebbero abolite.
Il filo diretto tra il bisogno e l’aggancio ai servizi dovrebbe essere individuato nella funzione del medico specialista, che una volta redatto il Piano, dovrebbe passarlo al Comune di residenza esclusivamente per le competenze socioassistenziali (laddove necessitino), diversamente agganciare in maniera diretta i servizi di natura sanitaria.
E le UVM? Bene, le UVM, dovrebbero monitorare e modificare quel Piano sulla base della crescita e dei bisogni che cambiano nel tempo, svolgendo azione di controllo su quelle attività rese per conto terzi, dal tanto, diffuso e di qualità mondo del terzo settore.
Il Decreto 62 restituisce un ruolo strategico al Piano individuale di vita, porta alla Certificazione unica e certamente produrrà migliorie a tutto questo; ma ancora una volta commette l’errore di fare redigere all’UVM il Piano individuale di vita, seppur in uno schema, ma che chiama alla collaborazione specialisti e associazioni dei familiari.
Quello descritto, in termini di proposta, consentirebbe anche da subito di armonizzare la spesa tra sanità ed enti locali, realizzando un risparmio di qualità e l’evitamento della replicazione dei servizi, ma soprattutto innescherebbe, grazie al monitoraggio un reale cambiamento sia sulla qualità dei servizi, che sulla qualità della vita delle persone con disabilità e delle loro famiglie.
La Sicilia, potrebbe essere ancora una volta, laboratorio in questo. Certamente invertire la #RottaSoci@le porterebbe a cambiamenti strutturali; diversamente il numero crescente di bisogni, servizi, supporti, continuerà a portare al collasso Comuni e Asp, in considerazione dell’aumento incomprimibile della spesa, che neppure una bacchetta magica, con formula allegata, potrà risolvere.
Ah, comunicazione per appassionati leoni da tastiera, alla frase “Ma perché non lo faceva lei?”. La risposta è: “Sono procedure nazionali e regionali; e si, comunque avevo avviato il lungo percorso.”