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domenica, 12 Ottobre 2025
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Lo psicologo di famiglia: un alleato per i giovani nella navigazione tra le generazioni

La violenza, il femminicidio numericamente in esplosione, la droga, l’incertezza di un mondo in continua evoluzione in cui navigare senza punti di rifermento, un “si salvi chi può” amplificato dalla pandemia che ci siamo lasciati alle spalle. Cosa si può fare per invertire la #RottaSoci@le? Ecco il terzo appuntamento della rubrica dell'ex Assessora alle Politiche Sociali del Comune di Palermo Rosi Pennino

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di Rosi Pennino

PALERMO. Ieri parlavo con mia figlia di 10 anni, perché ogni volta che mi propone qualcosa a me sconosciuta, le rispondo sempre allo stesso modo “la mia generazione si divertiva a stare insieme in un modo diverso!”.

Occorre puntualizzare in premessa, che la mia età non è così in avanti, non appartengo neppure alla categoria dei cinquantenni e ne sono ancora relativamente lontana, ma allo stesso modo il divario generazionale legato anche ai cambiamenti sociali non può che farti sentire lontana anni luce dalla generazione di chi ha 10 anni, oggi.

La risposta che ho ricevuto da mia figlia dopo la mia affermazione nostalgica sulla mia generazione, è stata la spiegazione dettagliata di come si dividono e si chiamano le generazioni, e cosi è venuto fuori che lei fa parte della generazione “Alpha” e io tra “X” e “Y”, mentre la generazione di cui tanto si parla e che fa riferimento ai “giovani di oggi” risponde a quella di “Z”.

Aldilà delle etichette e delle classificazioni, la riflessione, specialmente in ragione dei sempre più numerosi e recenti fatti di cronaca che vedono coinvolti giovani e giovanissimi, non può non portare all’analisi della cornice sociale in cui si è sviluppata e si sta sviluppando la crescita e la formazione di ognuna di queste generazioni.

La mia di generazione (X) è nata durante un periodo di grande cambiamento sociale e culturale, avvolta dai grandi movimenti giovanili, dalla presenza strutturata dei partiti come luogo di impegno e militanza, dalla presenza forte degli oratori e dei gruppi scout, diffusi in maniera capillare nei quartieri, dal desiderio incontrollabile di voler cambiare le cose, sfiorata dalla rapida evoluzione tecnologica ma funzionale e portata con entusiasmo verso l’era di internet; quando già i sogni e il desiderio di cosa fare da grande erano ben strutturati.

Abituati a vedere gli amici in presenza, la mia generazione sviluppava le relazioni sociali attraverso le cosiddette “comitive”, aggregazioni di pari conosciuti dalle rispettive famiglie all’interno delle quali si sviluppavano amori, amicizie profonde, percorsi di studi comuni e modalità di divertimento di organizzazione di momenti collettivi per stare insieme a feste, vacanze estive e serate turnando le case e i villini in cui si stazionava o dandosi appuntamento sempre nello stesso posto, alla stessa ora, per passare pomeriggi e tempo libero, insieme.

Certamente non si tratta di odore di santità: si beveva e le stupidaggini erano all’ordine del giorno, ma era diverso. Erano in qualche maniera gruppi chiusi che escludevano situazioni, personaggi, eccessi, e che guardavano da lontano e con paura fenomeni come la dipendenza, la violenza, lo sballo, e se qualcuno si perdeva? Esisteva una istintiva corsa irrefrenabile a volerlo salvare, perché in qualche modo eravamo la generazione del “io mi preoccupo di”.

L’Europa era un sogno, i luoghi del mondo desiderosi di essere conosciuti.

La potenza dell’era digitale, che ha travolto stili e modi di aggregazione, ha collegato il sentimento dell’amicizia ad un click su Facebook, Instagram, Tik Tok e tutte le altre piattaforme social, eliminando in maniera naturale il sentimento dello stare insieme attraverso il legame profondo di crescita condivisa che ti restituisce l’amicizia. I luoghi di militanza giovanile sono pressoché spariti, la politica è un luogo fatto di stanze di bottoni, in cui quando trovi qualche giovane risulta come fatto eccezionale, i luoghi del divertimento sono luoghi sempre diversi e aperti a ogni genere di conoscenza.

Il futuro sembra confuso, congelato tra l’idea di cosa voler fare da grande e la consapevolezza che forse devi partire, le famiglie fragili e spesso in situazioni di conflitto, e l’idea del sesso sconosce la magica attesa della “prima volta”; un profondo sentimento del “me ne frego” ha radicalmente sostituito il “mi occupo di”.

Di contro quella “Z” è comunque una generazione di giovani, bellissima, che può vivere l’Europa, conoscere il mondo, che parla diverse lingue, che non vive con molti dei pregiudizi in cui viveva la mia, che può cambiare con le proprie competenze il volto di molti servizi legati alla pubblica amministrazione e non, che non ha paura di vivere lontano da casa, e che certamente non vuole vivere a casa fino a 30 anni.

Ma allora cosa sta succedendo?

Succede che continuiamo a non occuparci di due tasselli fondamentali: la salute mentale e le competenze genitoriali. Questa generazione si trova a dover affrontare sfide diverse.

La violenza, il femminicidio numericamente in esplosione, la droga, l’incertezza di un mondo in continua evoluzione in cui navigare senza punti di rifermento, un “si salvi chi può” amplificato dalla pandemia che ci siamo lasciati alle spalle, che ha reso ancora più fragili i nostri ragazzi.

Occorre invertire la tendenza, non vi è alcun dubbio.

I recenti e dolorosi fatti di cronaca che hanno visto come protagonisti i nostri giovani, in queste ultime settimane e giorni, non possono non restituirci con la forza di un’evidenza indiscutibile, uno stato di fragilità della salute riguardante la sfera psicologica, di questa generazione, oltremodo preoccupante; la mia generazione deve riscoprire il sentimento di “occuparsi di” e smettere di stare comoda tra i guanciali di un lavoro semi sicuro e i racconti delle occupazioni studentesche.

Va istituita e inserita all’interno dell’albo professionale degli psicologi la specializzazione specifica dello psicologo di famiglia, e trasferita immediatamente all’interno dei servizi sanitari e sociosanitari come prestazione identica a quella del medico di famiglia.

Esattamente come quando andiamo a scegliere il medico di base dovremmo poter scegliere come altra prestazione sanitaria di base, quella dello psicologo di famiglia.

Questo punto di riferimento certo, in termini di servizio consentirebbe alla mia generazione di poter essere accompagnata nella crescita degli strumenti genitoriali, ai nostri giovani di poter avere un punto di riferimento che fa snodo nelle relazioni tra famiglia, scuola, confronto coi pari.

Questa figura, importantissima nelle situazioni di conclamata emergenza e fragilità, risulterebbe fondamentale in termini di prevenzione, producendo anche abbattimento dei costi di altre prestazioni e riportando a normalità le sofferenze in cui versano importanti segmenti di servizi legati alla salute mentale, al ricorso alle comunità, e metterebbe ordine in un diffuso e importante mondo del privato, in cui questa figura è costantemente utilizzata da coloro i quali sono in grado di permettersela economicamente.

Non è certamente la soluzione di tutti i mali, riflessioni profonde, infatti, devono essere fatte su tanti altri segmenti legati al venir meno della serenità e dell’unione dei nuclei familiari, a come la scuola e il corpo docente sono cambiati nel tempo, all’impoverimento culturale e economico, alla riorganizzazione urbana delle città chiamate a governare il mondo della movida, che in maniera disordinata si è sviluppato amplificando dipendenze di diversa natura.

Ma da qualche parte occorre iniziare, istituire lo psicologo di famiglia significherebbe prendere atto per la prima volta del malessere diffuso che sta attraversando questo nostro tempo; significherebbe intervenire sul problema con una risposta chiara e accessibile per tutti, che consentirebbe di aggredire i fenomeni sul piano dell’invio in emergenza e dal punto di vista della prevenzione. Un tassello certo, a cui riferirsi nell’enorme confusione in cui ci si trova quando si perde la #RottaSoci@le, un tassello semplice alla portata di ogni estrazione sociale e culturale, la rottura di un tabù che lascia ancora nel nel pensiero comune diffuso l’idea che si debba andare dallo psicologo perchè si è “malati”, invece di comprendere che occorrono percorsi per dotarsi di strumenti con i quali affrontare le sfide quotidiane, per avere la lettura dei diversi campanelli d’allarme in un figlio. Significherebbe poter gestire la notizia di una malattia, della scoperta della disabilità, di un lutto, insomma, servirebbe davvero per curare quelle ferite che non si vedono.

Proporre l’istituzione di questa figura non significa far sparire il diffuso e capillare mondo che esiste in termini di servizio e oscilla tra il pubblico e il privato sociale; molteplici e massicce, infatti, sono le risorse che sul piano sociosanitario vengono investite per realizzare luoghi di servizio e di opportunità, ma sono troppo confuse, accessibili solo nel momento in cui si conclama l’emergenza, non sono decodificabili, nè realmente alla portata di tutti.

In sintesi questa vuole essere la mia riflessione sullo spaccato che investe cronache, media, social etichettando la generazione “Z” come una generazione “senza”; una generazione che appare ai più priva di sogni e voglia di impegno.

Cara mia generazione “X”, torniamo a “occuparci di”, cerchiamo di insegnare l’altruismo ai nostri ragazzi, rimettiamoci in discussione insieme a loro, perché colpevolizzarli e etichettarli non funziona, spegniamo ogni tanto i nostri cellulari e impariamo a guardarli negli occhi, proviamo a ritrovare insieme la speranza, che ci vede arresi nel nostro ruolo educativo. Parafrasando Roberto Vecchioni: “Sognando senza arrenderci, si può sbancare la roulette”.

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