Un anno fa la città di Valencia era sugli schermi delle televisioni di tutta Italia, a causa della DANA, la “goccia fredda”, il fenomeno metereologico estremo che causò l’alluvione di diversi paesi della Regione e 228 vittime accertate, insieme ad altre 8 in Castilla-La Mancia e Andalusia, oltre 120.000 sfollati e altrettanti veicoli distrutti.
Mi trovavo a Valencia nel pieno del mio secondo mese di Erasmus, quando l’intera regione si è vista investita da una catastrofe naturale di proporzioni che da decenni la Spagna non vedeva. La città di Valencia era stata toccata in modo piuttosto marginale dall’alluvione, ma già a 20 minuti in macchina dal centro, nei pueblos che formano un tutt’uno con la città, era solo fango.
Dalle aule universitarie alle pale: la risposta dei volontari
Fin dai primi giorni io e diversi miei colleghi e colleghe ci siamo adoperati per rispondere come potevamo alle necessità della città che ci aveva accolto e che sarebbe stata la nostra casa per diversi mesi a seguire: dapprima in un centro di raccolta alimenti, poi a spalare il fango nelle zone più critiche. L’università si è fermata per un mese e mezzo: alcune aule ospitavano le classi delle zone distrutte, ma la ragione principale della sospensione era l’esigenza di non congestionare ulteriormente le arterie viarie già messe a durissima prova prima dai danni, poi dal via vai incessante dei mezzi di soccorso.
I giorni del fango: la memoria e la lotta per la giustizia
L’Erasmus ti segna per sempre: sto passando questi giorni a rivivere attraverso foto e video tutte le cose che facevo un anno fa, dall’arrivo in città alle varie uscite serali. Sentivo incombere questo 29 ottobre da giorni: in questi mesi a Valencia ogni 29 era fisso l’appuntamento in piazza con parenti delle vittime, volontari e cittadini, per chiedere a gran voce verità e giustizia per quanto accaduto.
A riguardare i video delle ore più critiche, stento ancora a credere di averli fatti io: avevamo modo di documentare ciò che vedevamo solo nel tragitto che percorrevamo fino al punto di incontro con altri volontari che ci aspettavano con l’attrezzatura per spalare. Giunti lì il telefono dovevamo necessariamente riporlo al sicuro da acqua e fango, dovevamo indossare guanti e mascherine e iniziare a spalare, buttare fuori il fango da garage, case, scuole, tendenzialmente fin quando non faceva buio. Poi si camminava fino a un’ora e mezza in mezzo al fango per arrivare alla prima strada percorribile libera dal fango, dove ci aspettavano le auto dei volontari del Circulo Internacionalista di Valencia, che ci riportavano nel centro della città. Così abbiamo trascorso buona parte del mese di novembre.
Nessuno di noi si è mai sentito eroe: ci dicevamo che chiunque al nostro posto avrebbe fatto la stessa cosa.
Oggi non posso fare a meno di guardarmi dentro per vedere cosa il fango abbia lasciato, a parte la sensazione fisica di essere costantemente immerso in una tragedia più grande di te, che non finisce mai, per quanto tu cerchi di buttarla fuori.
Cosa resta allora?
Resta sicuramente Riccardino: un bimbo di 7 anni che, trasferitosi da qualche mese con la famiglia a Valencia dall’Italia, con secchiello e pala in miniatura, spalava accanto ai genitori. Per lui era un gioco, per noi l’immagine più limpida di un senso di solidarietà connaturata all’essere umano che non ha ancora conosciuto il mondo degli adulti.

Resta la resilienza di Antonio, che dal terzo piano della sua abitazione ad Alfafar aveva visto il suo garage al piano terra “scoppiare” per la quantità d’acqua che vi era entrata e la sua auto andare via per le strade del paese: a 6 giorni dall’alluvione non l’aveva ancora ritrovata. Resta la sua speranza di rivedere il pavimento del suo garage sotto il fango, a dispetto dell’albero di Natale lì conservato divenuto pesantissimo e marrone, strapieno di fango. Resta il suo sorriso durante la pausa pranzo di una giornata che aveva richiesto uno sforzo fisico estenuante, nel trasportare carriole di fango verso il campo più vicino: durante quel pranzo Antonio prende da uno scaffale in alto del garage delle lattine di birra, le apriamo e le beviamo insieme, come se attorno tutto non sapesse di morte.
Simboli di distruzione e di rinascita
Resta quella copia della Guernica di Picasso in mezzo al fango: a ricordare quanto la degenerazione dell’umanità sia capace di distruggere, tanto con la guerra, quanto con le scelte scellerate che aggravano ogni giorno quel collasso climatico che è innegabilmente almeno concausa di tragedie di questo tipo.
Resta l’immagine della vulnerabilità di quella casa in Carrer de la Pau a Massanassa: si trattava della prima abitazione a ridosso della Rambla del Poyo, il torrente quasi sempre asciutto che, con la sua esondazione, aveva letteralmente sollevato e spaccato in due la casa. Quella casa l’abbiamo svuotata di tutta la vita della famiglia che la abitava, i cui componenti erano rimasti per quattro ore con l’acqua che arrivava fino al mento, nella casa dei vicini al primo piano presso cui avevano trovato ospitalità. Quella casa e la coppia sulla sessantina che la abitava ci ricordavano quanto il bene più importante siano la vita e l’amore: tutto il resto in mezz’ora può essere completamente sommerso, distrutto e buttato via.
Resta la Parròquia de Sant Ramon Nonat di Paiporta: il suo teatro era stato completamente distrutto, la chiesa appena appena ripulita dal fango, ma già piena di aiuti di ogni tipo, classificati dai giovani volontari della comunità.
L’indignazione e la forza della solidarietà
Resta l’indignazione per una politica che prima si fa complice del collasso climatico, con scelte di motivazione economica che contribuiscono alla distruzione del pianeta. Poi si mostra incapace di garantire l’incolumità dei propri cittadini, per finire con la presunzione di non aver bisogno di aiuti esterni nella gestione di una situazione emergenziale che si è protratta per settimane, con garage e macchine al loro interno che ancora non erano stati ispezionati a più di 10 giorni dall’alluvione.
Resta quella catena umana fatta di volontari e militari che si passavano los cubos llenos de barro, i secchi pieni di fango, dai garage per gettarli nel fiume di Paiporta. Restano i commercianti attorno di ogni tipo, con le loro botteghe distrutte, ma diventate punti di ristoro per i volontari, con uno striscione che campeggiava sul palazzo di fronte, recante la scritta “Gracias voluntarios”.
Restano le amicizie “impastate, modellate nel fango”, che con estrema probabilità si porteranno impressa per sempre l’essenza di ciò che significa lavorare fianco a fianco in mezzo al fango con degli ospiti come te in una città ferita, ma viva: l’essenza di ogni relazione umana, che dovrebbe consistere nel vivere con l’altro i suoi problemi, entrando nelle fragilità del prossimo, senza la paura di inzozzarci completamente il corpo e i vestiti.
Resta quel senso di solidarietà che non ci ha fatto esitare dal metterci degli stivali da neve – gli unici reperibili nei negozi presso cui quelli più adatti erano andati a ruba – per aiutare delle persone che parlavano una lingua diversa dalla nostra, ma che semplicemente si erano trovate vittime di una catastrofe di dimensioni immani: ciascuno di noi avrebbe potuto essere al loro posto, dimenticato da qualsiasi istituzione e tenuto in vita solo dai volontari. Perché “Sols el poble salva al poble”, “Solo il popolo salva il popolo”. Perché la fratellanza e la solidarietà sono le uniche armi che possono salvare l’umanità dalla distruzione che tante volte si autoprocura. Perché solo l’amore resiste al fango.







