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martedì, 14 Ottobre 2025
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Lo Zen, le ferite e quei ragazzi che costruiscono futuro

Davanti al nuovo episodio di violenza che ha scosso Palermo, torna il nome dello Zen. Dietro le cronache nere c’è anche un’altra realtà: quella di giovani che vogliono raccontare e cambiare il proprio quartiere. L’esperienza di Terramatta.tv con gli studenti dell’istituto Falcone mostra che dallo Zen può nascere anche speranza, impegno e bellezza

Filippo Passantino
Filippo Passantino
Giornalista professionista, laureato in Comunicazione per enti pubblici e non profit all'Università La Sapienza di Roma. A servizio del progetto editoriale e sociale de "Il Mediterraneo 24"
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C’è un’aria pesante che torna a soffiare su Palermo, come un’eco che non smette di ripetersi. Un ragazzo è morto, un altro lo ha ucciso. E di nuovo, in questa dolorosa geografia della città, ritorna il nome di un quartiere: lo Zen. Lo Zen, come luogo e come stigma, come periferia e come simbolo. Lo Zen, che diventa spesso la parola comoda. Come alibi.

Anche questa volta, come in altre, le cronache raccontano che l’assassino viene da lì. E non è la prima. Ma ridurre tutto a una provenienza geografica sarebbe non solo ingiusto, ma anche sterile. Perché lo Zen non è un solo quartiere: è una ferita aperta nella coscienza collettiva di Palermo. È il luogo dove le disuguaglianze diventano destino, dove il futuro sembra un privilegio per pochi.

La nostra impresa sociale due anni fa, consapevole di questo problema, ha scelto di entrare in quella ferita per ascoltare. Per portare la propria goccia nel mare auspicato dell’impegno sociale. Così abbiamo realizzato un percorso di formazione alla comunicazione digitale e al giornalismo con alcuni ragazzi dell’istituto comprensivo Falcone, culminato in un minidoc pubblicato su Terramatta.tv. Lì, dietro le telecamere e i microfoni, quei giovani hanno raccontato il loro quartiere, con le loro parole, le loro immagini, la loro prospettiva.

Non era facile. Perché raccontare lo Zen significa attraversare i pregiudizi di chi guarda da fuori e la diffidenza di chi vive dentro. Ma è proprio in questo spazio, tra la distanza e la paura, che il giornalismo può ancora avere senso. Non quello che interviene per sensazionalismo o convenienza, ma quello che sceglie di esserci perché è un dovere morale e civile.

Durante quei mesi, non abbiamo trovato “il problema dello Zen”, ma un’umanità viva, capace di sognare e di costruire. A volte da correggere. Ma su un binario che può condurre su sentieri di vita, non di morte.
Abbiamo parlato di linguaggi, di come si raccontano i fatti e le persone, di come si può cambiare lo sguardo su se stessi e sulla propria comunità. Abbiamo visto occhi accendersi quando capivano che dietro una videocamera o davanti a un microfono si può esercitare libertà. Che anche da un quartiere come lo Zen si può fare informazione – perché loro l’hanno fatta con le loro interviste -. Che si può creare bellezza, si può generare fiducia.

Ecco perché, di fronte a un nuovo episodio di violenza che scuote Palermo, sentiamo il bisogno di dire che non tutto dello Zen è oscurità. C’è una parte di quella comunità che ogni giorno prova a scrivere un futuro diverso: fatto di studio, di lavoro, di responsabilità. È questa la realtà che abbiamo conosciuto. È questo il volto dello Zen che nell’ordinario non trova spazio nelle cronache ma che merita di essere raccontato — non per buonismo, ma per verità.
Perché se da un lato ci sono i fatti di sangue che interrogano la coscienza di tutti, dall’altro ci sono giovani che ogni giorno scelgono la vita, la partecipazione, la parola invece della violenza.

E noi, come redazione e come impresa sociale, continueremo a stare da quella parte. Lì dove il giornalismo può ancora contribuire a costruire ponti, e non a scavare distanze.
Lì dove, lontano dai riflettori, cresce il futuro che non fa rumore.

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