PALERMO. Un silenzio muto e surreale viene interrotto dalle grida laceranti dei pazienti rinchiusi nelle buie e gelide stanze del Manicomio di Palermo. Da quella che viene poi denominata “Real Casa dei Matti”, che ospita uno spazio museale nel padiglione della Vignicella, uffici e ambulatori ASP, stanze destinate ad associazioni e cooperative impegnate nel sociale, emergono storie di un’umanità silenziosa e fragile, in uno “spazio negante”, dove il tempo si è fermato e la vita è diventata piatta. Qui, infatti, non ci sono fatti o eventi particolari da raccontare. I giorni sono tutti uguali. Dalle testimonianze dei pazienti emergono solo scampoli della vita vissuta in precedenza.
Storie di pene e di dolore, come quella raccontata da Sebastiano Catalano nel suo libro “InGrate”. Salvandolo dal macero di una cartiera, lo studioso, fondatore dell’Associazione Mentelibera ODV e autore di libri di successo recupera il diario di un’internata, risalente al 1934, in pieno periodo fascista. “Un diario complesso e per certi aspetti inquietante, che ci interroga e ci invita a interpretare l’eloquio narrativo rappresentato dal suo stato d’animo”.
Nelle stanze del Nosocomio palermitano ci sono dei “cameroni”, con più letti, e delle camere d’isolamento del tutto vuote, gelide e piene di lordura, dove a terra c’è solo “pagliericcio”. In un’altra stanza solo un letto inchiodato al pavimento – il letto di contenzione -, privo di materasso con lunghe cinghie di tela olona per legare il “folle”, che con la sua violenza è capace di spaccare tutto al punto da rendere necessario l’utilizzo della camicia di forza. Dalle cartelle cliniche emergono storie di tanti sventurati e lettere dei familiari mai giunte a destinazione a causa di una corrispondenza negata dal pretesto di essere nociva alla condizione del paziente.
È il 19 luglio del 1934. Siamo in pieno Fascismo. La persona internata ha 60 anni. Il racconto inizia dal giorno in cui è stata rinchiusa.
“Andai ad aprire e due signori, uno smilzo e l’altro più bruno, con camicia di colore scuro, in tinta mista, si presentarono senza dare il loro nome e senza che io l’invitassi, s’introdussero in casa mia, sostando nella stanzetta ove era mia sorella. Uno quello più smilzo portava un abito piuttosto chiaro quasi latte e caffè, il più bruno vestiva più scuro e tutti e due credo di colore non unito. Io rimasi e prima che domandassi cosa volevano, il più bruno, che parlava incessantemente, disse di essere venuto perché io avendo fatto domanda al nostro Duce chiedendo una visita collegiale per mio marito l’avevo ottenuta. Non mi diede il tempo di dirgli che io non avevo scritto a Sua Eccellenza Mussolini per tale visita, che, parlando in fretta quel signore disse accennando al quadretto ovale dorato ove è il ritratto del Duce: Ecco dove è! E continuò dicendo che era stato mandato di urgenza; mostrandomi un foglio di carta scritto a macchina con sotto la firma piuttosto grande di S. Eccellenza Mussolini”.
“Non sappiamo se complici siano stati il marito e la sorella. Certamente, si tratta di una persona colta, che scrive bene, comunicando in modo lineare, efficace e ben organizzato”, spiega Catalano. “La diretta interessata, infatti, esordisce dicendo: ‘Vediamo di cominciare con un certo ordine’”. Sono passati cinque anni dalla prima stesura del diario, un periodo lungo per restare lucidi dentro un luogo che adatta, modella e plasma non solo i considerati folli, ma anche le persone sane di mente, che, internate a vario titolo, finiscono col perdere la ragione e i sentimenti.
I manicomi – spiega l’autore – erano luoghi dove i malati di mente venivano immunizzati dalle influenze nocive che recavano all’ambiente in cui vivevano. Luoghi di segregazione, di persone scomode, per il bene della borghesia. Funzionali per gli obiettivi della politica demografica, con l’eliminazione, dalla società, dei più deboli di mente. “Accadeva – spiega Catalano -, non di rado, che venivano internati uomini e donne che non rispettavano le norme comuni di convivenza pacifica: persone deboli e indifese, ragazze vittime di violenza di ogni genere, gente travolta dalla guerra, incapace di superare gli smarrimenti prodotti dagli avvenimenti”.
La cura diviene di fatto l’internamento, e gli strumenti terapeutici utilizzati sono forti, traumatici, volti a provocare uno shock: docce ghiacciate, isolamento, contenzione fisica, purghe, salassi, oppio. Ancora nel Novecento si continua con la lobotomia frontale, lo shock cardiazolico e l’elettroshock. Dal punto di vista normativo viene introdotta ed emanata nel 1904, in Italia, la legge Giolitti. Una legge garantista nei confronti del malato, ma orientata soprattutto verso la protezione della società: si propongono limitazioni alla libertà del malato, considerato un pericolo di “pubblico scandalo”. Questi metodi furono gradualmente abbandondati fino all’applicazione della legge Basaglia, nel 1978, che decretò anche la chiusura dei manicomi convertendoli spesso in moderne strutture sanitarie.
Così riporta uno stralcio del diario:
“… Io scrivo qui,
come vuole Dio,
alle volte anche sui ginocchi e
sempre vicina a qualche ammalata,
che poveretta,
essendo giovane canta le sue canzoni d’amore.
… sappi che mi trovo fra le più quiete,
fra le quali, a dir la verità,
ve ne sono anche,
molto savie”.
Il diario si articola in tre periodi: il primo inizia il 19 luglio del 1934. Il secondo, il 30 aprile del 1939 e il terzo va dal 23 maggio 1939 al 29 maggio dello stesso anno. “In questi cinque anni, di mancata redazione del diario, qualcosa sicuramente è cambiato, perché la scrittura perde di efficacia, diventa spesso saltellante e a volte incomprensibile”, spiega l’autore del libro. “Riflette sensibilmente lo stato dei luoghi, con deliri senza senso, stati inespressi e inesprimibili. In alcuni tratti l’autrice riesce però ad esprimere modelli di un linguaggio raffinato e sensibile, con tanta poesia ed una sintesi di quello che racconta”.
“Il modo di parlare dei ricoverati – spiega inoltre l’autore – non è certamente uguale alla lingua parlata comune. Nella maggior parte dei casi si tratta di persone che hanno perso la percezione del tempo senza distinguere le ore della giornata, confondendo la mattina con il pomeriggio e la sera con il giorno. I ricoverati si esprimono con una scrittura al di fuori di ogni forma, creando neologismi, invenzioni linguistiche e incongruenze di significato, utilizzando la sintassi in modo personale.”
L’autrice del diario racconta le sue pene e i suoi dolori mai però il desiderio di uscire, quasi rassegnata per la condizione in cui si trova. Non eleva mai un grido di protesta come fanno solitamente gli internati. Fin dal primo giorno, dice, infatti, alla sorella: “Potevate tenermi a pensione con un pò di sacrificio vostro e con le lire settecento trenta che avevo quando entrai in Manicomio e che mi dissero di essere depositate; somma che adesso cogli interessi sarà un pò aumentata”.
“L’eccezionalità di questo documento-memoriale – spiega l’autore – consiste nel fortunoso ritrovamento, a distanza di novant’anni, di vicende raccontate da una paziente, a differenza da quanto estrapolato dalle cartelle cliniche redatte dai medici, e dalla letteratura prodotta dai ricercatori. Una scrittura ricca, riportata in 76 pagine di carta protocollo”.