PALERMO. Ex comandante dell’esercito afgano in prima linea nella lotta ai talebani, poi l’arrivo in Italia nel 2002. E, in particolare, a Palermo, dove oggi lavora nel ristorante coworking Moltivolti. Ecco Mohamed Shapoor Safari, 50 anni: i suoi occhi tristi in cucina e il pensiero rivolto al suo Paese, caduto in mano ai talebani. “Lì sei morto anche se resti vivo. La gente ha paura”, dice.
Shapoor aveva 35 soldati sotto il suo controllo. Nel 2002 è fuggito dal suo Paese perché non poteva più sopravvivere lì. Non è stato semplice ricominciare da zero, a Palermo è riuscito a costruirsi una vita nuova.
Dopo vent’anni, però, l’incubo del dominio talebano è tornato realtà con l’ingresso delle truppe a Kabul. Scene che hanno fatto il giro del mondo. Shapoor alcune le vede in tv, altre nei video che riceve dall’Afghanistan. Secondo lui, è difficile, se non impossibile, che vengano compiuti passi avanti. “Non sono le armi la soluzione – dice -, soprattutto quando vengono date in mano ai bambini di 7 anni, che invece dovrebbero stringere libri così da affrontare il futuro con strumenti più intelligenti. Ma purtroppo ribaltare l’assetto politico, sociale ed economico è una missione ardua che richiede un tempo non quantificabile“.
Com’era prima Kabul rispetto ad adesso?
“Quando eravamo in Afghanistan sono arrivati i mujahideen ed è caduto il nostro governo. Successivamente noi siamo andati con loro. Poi sono arrivati i talebani. Non possiamo definirli animali, come molti pensano, perché gli stessi animali non farebbero quello che stanno facendo ora i talebani. Da quando sono tornati per la seconda volta, le persone hanno molta paura. Sin da quando li hanno visti in faccia per la prima volta li hanno temuti, perché non sembrano neanche esseri umani. In molti hanno lasciato il Paese. Contemporaneamente, tutto il mondo guarda ciò che sta accadendo in Afghanistan. Ma adesso che stanno governando non so cosa succederà”.
Rispetto a 20 anni fa, qualcosa è cambiato?
“Speriamo che cambi. Oggi ho visto un video di quattro comandanti dell’esercito che sono stati condannati a morte e ammazzati in un campo di calcio. Noi abbiamo perdonato tutto, ma quattro persone sono state uccise”.
Secondo lei, com’è possibile anche a livello governativo che dopo 20 anni siano tornati i talebani?
“L’Afghanistan cinquant’anni fa era una democrazia, ma piano piano è iniziata una guerra tra la Russia e America contro l’Afghanistan che è il cuore dell’Asia geograficamente. Il nostro è un Paese ricco di litio, uranio, diamanti e altre pietre preziose. L’America vent’anni fa voleva creare una democrazia falsa, non agendo secondo principi democratici, ma per interessi. Nessuno può comandare a casa di qualcun altro. L’essere umano non accetta la costrizione. Se gli americani avessero voluto davvero la democrazia, avrebbero costruito delle fabbriche per dare un futuro diverso ai bambini, non mettendo in mano armi. Le fabbriche che c’erano sono state distrutte”.
In una conferenza stampa a Kabul, il portavoce dei talebani ha detto: “Vogliamo assicurarci che l’Afghanistan non sia più un campo di battaglia”. Questa affermazione come la fa sentire?
“In questo momento non posso giudicare. La gente adesso sa come deve combattere. Anche con la penna, con la parola o con le armi. In qualsiasi modo. Io non credo ancora a niente. Mesi fa abbiamo visto cosa facevano e in una settimana non si può cambiare. Chi cresce in un modo non può trasformarsi in pochissimo”.
È stato detto che le donne potranno salire al governo seguendo la Sharia. Cosa ne pensa?
“In questo momento loro hanno detto tante cose, cercando di avanzare proposte positive perché per ora tutto il mondo li guarda. Ma chi è in un determinato modo non cambia. Lo fanno per calmare le acque. Ad esempio, non dovrebbero giustiziare le persone davanti ad altri. Eppure lo hanno fatto”.
Si discute anche sui diritti della donna perché si dice che siano stati fatti passi avanti. Ma si assiste a passi indietro.
“È molto difficile cambiare. Io non credo. È impossibile”.
La sua famiglia si trova in Afghanistan?
“Sì, mia sorella e mio fratello. Sto cercando di aiutarli per arrivare qua. Soffrono. Tutti hanno paura, si trovano proprio a Kabul. La scena delle persone che si sono aggrappate all’aereo è simbolo di disperazione. Perché pensano “O muoio qua o lì”. Un po’ come chi viene dal barcone, prova in tutti i modi a salvarsi. Migliaia di persone sono morte comunque. Già lì sei morto anche se resti vivo. Perché non hai un lavoro, vivi male, non hai possibilità. Sono venuto dall’Iran e sono andato verso la Turchia. Ho visto tanta gente morire”.