PALERMO. Avevano 32 e 29 anni – Tina e Antonio Montinaro – quel 23 maggio del 1992 quando sulla strada per Capaci una bomba uccise Antonio, caposcorta del giudice Falcone, il magistrato con sua moglie Francesca Morvillo e gli altri due poliziotti della scorta Rocco Dicillo e Vito Schifani.
Da un anno e mezzo l’associazione Quarto Savona Quindici a Palermo, guidata da Tina Montinaro, che porta il nome in codice dell’autovettura in cui viaggiava suo marito ha aperto le porte alla città. E non solo. Tanti bambini arrivano da ogni parte d’Italia. Da 32 anni non si è mai fermato il grande lavoro di sensibilizzazione della moglie del caposcorta del giudice per coltivare e promuovere la cultura della memoria della legalità soprattutto tra i giovani.
Si tratta di bambini come lo erano Gaetano e Giovanni, oggi 37 e 34 anni, i figli di Tina e Antonio che all’indomani del 23 maggio del ’92 non sono mai rimasti da soli. “Ho avuto un grande marito, un marito coraggioso”, racconta Tina Montinaro al nostro giornale. L’ho raggiunta nella sede della sua associazione. “In quel periodo in cui c’era una guerra a Palermo, Antonio decise di stare accanto al dottor Falcone e scendere in guerra. Pochi uomini sono scesi in guerra e quelli che lo hanno fatto sono morti in quel periodo. Questi uomini hanno dato a noi però la possibilità di alzare la testa. Ecco perché non li dobbiamo dimenticare.”
“Mi piace sempre dire – continua la moglie del caposcorta – che sono la moglie del poliziotto e voglio stare tra la gente. Non mi piace la parola vedova, è qualcosa che ti stacca, che finisce, Antonio invece è sempre presente, continua a riempirmi le giornate con tutte le attività che faccio.”
La sede dell’associazione Quarto Savona Quindici, un bene confiscato alla mafia, nel quartiere Malaspina a Palermo, assegnato un anno e mezzo fa a Tina Montinaro dal Comune di Palermo – alla consegna era presente anche il Ministro degli Interni – è piena di cimeli e riconoscimenti ricevuti in questi 32 anni di attività e impegno civile.
“Siamo una realtà sul territorio a disposizione delle persone che hanno bisogno”, continua Montinaro. “Quando ti accadono delle cose che sono grandi tragedie perché la famiglia non è più quella di prima, ci sono delle ferite che ti porti addosso, ti aspettavi una giustizia diversa, però questo non mi ha mai impedito di parlare ai giovani. Parto sempre da un principio: siamo in una città dove si contano tanti morti e non sappiamo la verità su tutto. Questo non ci deve mai impedire di parlare ai giovani perché devono capire che cosa è successo e andare anche loro alla ricerca della verità. Antonio aveva fatto una grande scelta. È morto a 29 anni come caposcorta del dottor Falcone, era l’uomo di fiducia del dottor Falcone e questo a me e ai miei figli non può che riempirci di orgoglio.”
Gaetano aveva 4 anni e mezzo, Giovanni 1 anno e mezzo. I figli di Tina e Antonio sono cresciuti nel ricordo di questo grande padre. “Ogni tanto ti senti dire: avete un cognome pesante. No, abbiamo un cognome importante. Pesante ce l’hanno i figli dei mafiosi”, continua Montinaro. “Antonio era una persona estremamente sensibile e buona. Io ho sempre voluto, e continuerò a farlo con dei progetti, aiutare i figli dei detenuti perché penso che diversa gente va in galera perchè ha fame, i bambini a volte crescono in certi ambienti e specialmente ai ragazzi, a loro bisogna dare una seconda possibilità. Dobbiamo far capire a questi giovani che noi ci siamo e che è possibile per loro avere un futuro diverso rispetto a quello dei propri familiari.”
In un altro bene confiscato ad Aspra, nel palermitano, nascerà una colonia estiva per questi ragazzini. “Vorrei portarli al mare, fargli vivere una vita normale. Stiamo lavorando con il Ministero della Giustizia. Se vuoi aiutare i bambini devi aiutare le famiglie con un lavoro. Non dimentico qualche anno fa a Brancaccio la festa della Polizia con le mamme del quartiere che mi hanno accolta con disponibilità e interesse”, continua Tina Montinaro.
A proposito della scarcerazione di diversi boss ergastolani e di permessi premio, cosa ne pensa?
“Se mettiamo sul territorio un uomo che è stato per 30 anni in galera, quindi, ha scontato la sua pena, e non si è mai pentito per quello che ha fatto, che cosa potrà fare fuori? C’è anche tanta gente che paga il pizzo. Stiamo andando indietro. Non c’è una garanzia delle Istituzioni. Quindi, questi tornano sul territorio e vivono chiedendo il pizzo. Non ce lo possiamo permettere. La mafia c’è, si è evoluta, ed è più pericolosa. Dobbiamo parlare alla gente che sta sul territorio. La mafia, nelle Istituzioni e nella Giustizia, quindi nello Stato, non la potremo mai sconfiggere. Si tratta di persone che sanno parlare più lingue, in giacca e cravatta, che hanno studiato. Bisogna stare molto attenti. Il mio impegno, quindi, parte dal basso ed è immediato. L’altro lavoro lo lascio fare a chi di competenza”, continua la moglie del poliziotto.
“Oggi vedo giornalisti che chiamano il dottor Falcone ‘Giovanni’. Mi chiedo: ma è diventato tuo fratello? Se conoscessi Giovanni Falcone o Paolo Borsellino? Rispondo di no. Perché in quei 57 giorni che rimasero a Borsellino, dalla strage di Capaci, non l’ho incontrato perché avevo due bambini piccoli a casa e dovevo pensare alla mia tragedia e ai miei figli. Non faccio antimafia. Io sono quella che sono. Secondo me ‘antimafia’ è essere una persona giusta, perbene e cercare di aiutare gli altri”, continua Montinaro.
Tra poco arriverà il 23 maggio. Saranno passati 33 anni dalla Strage di Capaci. La teca con cui Tina porta in giro la Quarto Savona Quindici, i resti dell’autovettura dove viaggiava suo marito sarà esposta in pianta stabile al Museo del Presente e della Memoria dedicato a Falcone e Borsellino e aperto recentemente a Palazzo Jung a Palermo dalla Fondazione Falcone. “Si faranno tanti progetti insieme alla Fondazione Falcone”, conclude Montinaro. “Verranno ragazzi da tutta Europa. È un piacere e un onore che Antonio, Vito e Rocco stiano in quel Museo insieme al loro magistrato. La prossima settimana con la teca saremo a Benevento e Avellino. Poi qualche altro giro prima di recarci al Museo a Palermo.”