All’alba dei miei sei anni inizia l’incubo dell’ingresso a scuola che può facilmente essere riassunto in una scena: ad un capo mia mamma che spinge, dall’altro la maestra Lucia che tira, ed in mezzo… io, con i miei sei anni, con i piedi inchiodati al pavimento e con quel pessimo ricordo di una maestra di asilo davvero troppo anziana e stanca per gestire venti bambini.
La maestra Lucia è stato il mio primo grande e importante incontro con la figura mitologica dell’insegnante. Ammettiamolo: spesso agli occhi degli alunni la maestra, il maestro, il professore o la professoressa sembrano proprio assumere questa accezione vicina al leggendario e lontana dal reale, nel bene e nel male.
Della maestra Lucia tre sono i ricordi più vivi: il tono solenne di rimprovero, la sua risata – amava scherzare e amava fare ridere noi alunni –, e le sue mani sui quaderni, quasi sempre screpolate a causa del freddo nei mesi invernali.
Ai miei occhi, quella donna alta, con le spalle larghe, i capelli lunghi mori era l’emblema dell’autorità, della fortezza e forse dell’emancipazione. Non si può dire fosse una donna femminile, ma ricordo che quel senso di invincibilità superava l’esteriorità, e rendeva la sua vita e il suo mestiere ai miei occhi un esempio di vita desiderabile.
Nel corso degli anni si sono susseguite numerose figure mitologiche di insegnanti, e ognuna di queste, sia “i Polifemo” che “gli Ulisse”, ha contribuito nella maturazione del mio desiderio di insegnamento.
Ricordo il mio Polifemo per eccellenza, l’insegnante di francese della scuola media: in questi anni inizia a crescere la mia intolleranza rispetto all’atteggiamento del “fate ciò che dico ma non fate ciò che faccio”, modo di vivere più comune di quanto non si creda a scuola.
Non dovrà passare molto tempo prima dell’incontro col mio eroe mitologico per eccellenza tra le varie figure di insegnanti.
Al IV ginnasio incontro il Prof. Gianluca La Spina: lui compie per davvero gesta che nulla hanno da invidiare a quelle degli eroi omerici. Il Prof. in men che non si dica cattura l’attenzione di sessanta orecchie, sessanta occhi e trenta teste di ragazzi tra i quattordici e sedici anni, raccontando la storia che forse ha più conciliato il sonno a numerose generazioni di studenti: I Promessi Sposi. La classe in sua presenza diventava teatro di avventure, di commedie e di tragedie, e noi alunni non ne eravamo spettatori passivi ma diventavamo, insieme a lui, sceneggiatori o attori di quelle vicende narrate. Durante quelle lezioni, in quel modo di fare scuola, i miei occhi hanno visto dell’arte, e quell’arte volevo impararla.
A lungo mi sono chiesta quale fosse il suo segreto e a lungo non ho trovato una risposta che mi convincesse fino in fondo; solo negli ultimi anni, nel mio graduale passaggio da alunna a docente ho messo a fuoco il suo “segreto”.
Il Prof. non ha mai rivolto il suo sguardo a noi come vasi da riempiere di nozioni, ma ci ha sempre guardati come piccoli germogli da curare e da nutrire.
Ai suoi occhi non mi sono mai sentita un’alunna, una dei trenta; ai suoi occhi sono sempre stata Maria Rita, persino durante le interrogazioni, che non erano affatto una passeggiata.
I Promessi Sposi, le poesie di Carducci, l’Odissea, non erano il fine, ma erano il mezzo per nutrire le anime, i cuori e le menti di giovani adolescenti che tentano di rispondere alle dolorose, complesse ma inesorabili domande “Chi sono?”, “Chi voglio diventare?”.
Insegnare e educare riguardano l’arduo lavoro di aiutare il divenire di un essere umano, e farlo con arte e consapevolezza non è affatto scontato. Non di rado altri insegnanti, quelli che fin qui ho chiamato i “Polifemo” tra le figure mitologiche, credono che il divenire sia sinonimo di forgiare a fuoco vivo, e in virtù di ciò basano il loro insegnamento sulla paura e alcune volte, purtroppo, sull’umiliazione.
Oggi, nel limbo tra il banco e la cattedra, i “Polifemo” e gli “Ulisse” diventano pian piano nella mia mente più vicini al reale, uomini e donne con modi di vivere la vita diversi: per alcuni il mondo è un luogo in cui per sopravvivere bisogna avere lame affilate per difendersi; per altri il mondo resta luogo dove si può e si deve divenire.
“Qualunque fiore tu sia, quando verrà il tuo tempo, sboccerai.
Prima di allora una lunga e fredda notte potrà passare. Anche dai sogni della notte trarrai forza e nutrimento.
Perciò sii paziente verso quanto ti accade e curati e amati senza paragonarti o voler essere un altro fiore, perché non esiste fiore migliore di quello che si apre nella pienezza di ciò che è. E quando ciò accadrà, potrai scoprire che andavi sognando di essere un fiore che aveva da fiorire.” (Walter Gioia)
Oggi, nel limbo tra il banco e la cattedra, sono in divenire e credo nel divenire, e se ciò è possibile è solo perché qualcuno ha creduto in me e si è curato di me.
Maria Rita Ingallina